i luoghi di Pippo bbono
le mie passeggiate
i luoghi di "Pippo Bbono"
con Santina, Annalucia e Pio, Carla e Aldo, Ornella e Goffredo, Maria Grazia e Bruno, Anna e Paolo, Aurora e Marco, Carmen ed Antonio, Maria Luisa e Mimmo, Geraldina e Mario, Marcella e Mauro, Tiziana e Luigi, Adalgisa e Paolo, Rosa Maria ed Emilio, Maria Giovanna, Maurizio, Massimo.
6 febbraio 2011
Questa passeggiata è stata l’occasione per disegnare un percorso che si snoda toccando alcuni tra i luoghi più significativi della vita di San Filippo Neri, attraverso i rioni Regola, Parione e Ponte in cui ancora oggi tante strade e piazza conservano intatto il fascino della Roma del XV e XVI secolo.
Pippo Bbòno (San Filippo Neri)
Giggi ZanazzoEra tanto umano tanto de bbon core che a Roma chi l'incontrava diceva: Ecco Pippo Bbono! E defatti tutti lo chiamaveno accusi. Sortanto le gran carità che ffaceva! Nun c'era poverello drento Roma che nun era stato soccorso da lui. Annava a ttrova l'ammalati, li curava, je dava bboni consiji, imparava a llegge e a scrive a li regazzini. Speciarmente pe' li regazzini, ciannava matto. Li curava cor una pazienza, cor un amore che nun ve ne dico. Quann'era la festa se li portava a ffa' mmerenna a Sant'Onofrio sotto la cerqua de Torquato Tasso: llì ddoppo magnato li faceva ggiocà', ddivertì' e j'imparavà a ccantà. Perchè fra ll'antre cose, dice che Ssan Filippo Neri era un bravo musicante. Quanno poi li regazzini faceveno troppa cagnara e l'infastidiveno, je diceva co' 'na pazienza da Ggiobbe: State bbôni, regazzi, si ppotete, e si nun potete seguitate.
Cenni sulla vita di San Filippo Neri
Filippo Neri nasce a Firenze il 21 luglio 1515. Compie gli studi presso i domenicani del convento di San Marco, ma non ha ancora 18 anni quando si trasferisce a San Germano vicino Montecassino, per apprendere da uno zio l'arte del commercio, ma questa attività poco lo attirava, per cui decide di spostarsi a Roma. Quando Filippo vi giunse nel 1533, la città faticava a riprendersi dalle ferite inferte sul suo tessuto sociale dal Sacco dei Lanzichenecchi del 1527. Alla desolazione che interessava porzioni significative della città e molti dei suoi abitanti facevano da contrasto i fasti della mondanità rinascimentale, cui non era immune la corte pontificia. Una volta arrivato, si stabilì a Sant’Eustachio, nei pressi del Pantheon, in casa di un concittadino, Galeotto Caccia, ai cui figlioli dava ripetizioni di grammatica, per guadagnarsi il vitto e l’alloggio. Per il resto della giornata «stavasene egli quanto poteva il più solitario, e senza compagnia d’altrui», fuori casa, «per le sue divozioni», scrive uno dei suoi primi biografi, Antonio Gallonio.
Filippo completa la sua formazione alla “Sapienza” ma si dedica alla preghiera, alla penitenza e alla cura degli ammalati; visita le Sette Chiese e, specialmente di notte, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, a quel tempo deserte e malsicure pure di giorno. Naturalmente, la solitudine del giovane Filippo non era così radicale come certi biografi tendono a disegnarla: divenne infatti subito amico dei domenicani del convento e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel cui coro recitava il mattutino e la compieta; fu compagno dei gesuiti nel terribile inverno del 1538-39, e con loro girò per la città a raccogliere infermi e poveri perseguitati dalla fame. Negli anni Quaranta del secolo frequentava con assiduità il quartiere dei Banchi, nei pressi di Ponte Sant’Angelo, dove era diventato amico dei cassieri e dei ragazzi commessi nei magazzini, ai quali, con la sua bella allegria, spesso ripeteva: «Beh, fratelli, quando volemo cominciare a far bene?». E sempre in quel periodo andava a pregare nella chiesetta di San Salvatore in Campo, dove fondò, insieme ad altri, la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini che si sarebbero riversati nell’Urbe nell’imminente anno giubilare del 1550. Domenicani e Gesuiti gli avevano proposto di entrare nel loro ordine, ma San Domenico e Sant'Ignazio erano per lui santi troppo severi: per Filippo seguire Gesù era affidarsi alla letizia della Resurrezione. Nella Compagnia della Trinità incontrò padre Persiano Rosa, cappellano della chiesa di San Girolamo della Carità che divenne il suo confessore, e a San Girolamo incominciò a ritrovarsi abbastanza regolarmente con quei compagni, giovani apprendisti e impiegati nei banchi, ma anche gente semplice, figli di artigiani e bottegai, che gli si erano stretti attorno, contagiati dalla sua allegria cristiana. Erano sempre più numerose le persone che si riunivano ogni giorno accanto a lui per la celebrazione dell'Eucarestia e per la spiegazione delle Sacre Scritture: nasce così, dalla pratica quotidiana, l'oratorio. Filippo divenne sacerdote il 23 maggio 1551. Gallonio racconta che da quel giorno iniziò a trovarsi «ad ogn’hora... al confessionario, scendendo ogni mattina all’alba nella chiesa, dove lungamente dimorando udiva con allegrezza quanti a lui venivano». A San Girolamo continuava con i suoi amici il dialogo semplicissimo, fatto, scrive Rita Delcroix (Filippo Neri, il santo dell’allegria, Roma 1989), di «domande e risposte sulla fede, sulla bellezza e la virtù e concluso con una spiegazione e un’esortazione, che Filippo compiva fraternamente, pianamente. Si usciva poi insieme per le strade di Roma...».
Negli anni del Concilio di Trento la sua vita ed il suo apostolato costituiscono un contributo concreto al rinnovamento della chiesa cattolica. Da sempre Filippo dimostra la sua particolare predilezione verso i fanciulli e i giovani, facendosi “fanciullo coi fanciulli, sapientemente”, divenendo loro amico e compagno di giochi. Non apre scuole e non traccia programmi teorici di insegnamento, ma organizza “liete brigate”. Al successo sempre maggiore delle riunioni dell'oratorio, delle passeggiate collettive quotidiane per le vie e le chiese di Roma, delle più solenni visite alle Sette Chiese (pellegrinaggi della durata di un giorno intero con messa, canti e anche colazione all'aperto), alle quali particolarmente nei giorni di Carnevale arrivavano a partecipare in alcuni anni più di un migliaio di persone, corrispose una notevole diffidenza, particolarmente acuta durante i pontificati di Paolo IV e Pio V; ci furono inchieste da parte del vicariato romano e dell'Inquisizione, essendo cosa «insolita» questo metodo di ragionamenti spirituali, con partecipazione dei laici, questa devozione che non negava la liturgia ufficiale né tantomeno i sacramenti, ma cercava nuovi spazi al di fuori delle consuete modalità. Resta il fatto che queste inchieste si conclusero sempre nel nulla e che l'influsso di Filippo e del suo gruppo divenne sempre più forte anche nell'ambiente curiale: alle riunioni e alle iniziative partecipavano i prelati e i cardinali più legati alla riforma religiosa, molti erano anche discepoli spirituali di Filippo. Poiché la malinconia è cattiva consigliera, mette la gioia al primo posto, accanto alla semplicità e alla dolcezza: per questo è anche chiamato “il santo della gioia”. Filippo trascorreva tempo con i suoi ragazzi: stava con loro. Quando qualcuno però si lamentava della “troppa allegrezza” dei suoi giovani, lui tranquillamente diceva: «Lasciateli, miei cari, brontolare quanto vogliono. Voi seguitate il fatto vostro. State allegramente: non voglio scrupoli, né malinconie; mi basta che non facciate peccati». E quando doveva calmarli un po’ diceva loro: «State buoni... se potete». Il 1564 fu l’anno in cui al riluttante “Pippo bbono” venne “imposta” dal suo amico cardinale Carlo Borromeo la rettoria di San Giovanni dei Fiorentini: là il santo destinò alcuni suoi seguaci diventati preti in quegli anni, lui però se ne restò a San Girolamo. Poi, il 15 luglio 1575, Gregorio XIII, concedeva al “diletto figlio Filippo Neri, prete fiorentino e preposito di alcuni preti e chierici”, la chiesetta parrocchiale di Santa Maria in Vallicella, dedicata alla Natività di Maria, ed erigeva canonicamente "una Congregazione di preti e chierici secolari da chiamarsi dell’Oratorio". In quello stesso 1575 si iniziò la ricostruzione della chiesa. Filippo, che non voleva assolutamente spostarsi, lasciò San Girolamo per questa nuova dimora solo nel 1583: ci volle l’intervento personale del Papa per spingerlo a lasciare il suo vecchio San Girolamo e a trasferirsi con la Congregazione che lo proclamava suo unico superiore. Se si riuscì a forzargli la mano, egli si rifece organizzando una splendida mascherata in cui i discepoli più fedeli dovettero attraversare la città sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando con gran cura un pezzo della miserabile mobilia di Filippo. Così era fatto “Pippo bbono”, l’Apostolo di Roma, che visse a Santa Maria in Vallicella fino alla morte, avvenuta il 26 maggio 1595. Il suo corpo riposa ancora qui.
Filippo completa la sua formazione alla “Sapienza” ma si dedica alla preghiera, alla penitenza e alla cura degli ammalati; visita le Sette Chiese e, specialmente di notte, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, a quel tempo deserte e malsicure pure di giorno. Naturalmente, la solitudine del giovane Filippo non era così radicale come certi biografi tendono a disegnarla: divenne infatti subito amico dei domenicani del convento e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel cui coro recitava il mattutino e la compieta; fu compagno dei gesuiti nel terribile inverno del 1538-39, e con loro girò per la città a raccogliere infermi e poveri perseguitati dalla fame. Negli anni Quaranta del secolo frequentava con assiduità il quartiere dei Banchi, nei pressi di Ponte Sant’Angelo, dove era diventato amico dei cassieri e dei ragazzi commessi nei magazzini, ai quali, con la sua bella allegria, spesso ripeteva: «Beh, fratelli, quando volemo cominciare a far bene?». E sempre in quel periodo andava a pregare nella chiesetta di San Salvatore in Campo, dove fondò, insieme ad altri, la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini che si sarebbero riversati nell’Urbe nell’imminente anno giubilare del 1550. Domenicani e Gesuiti gli avevano proposto di entrare nel loro ordine, ma San Domenico e Sant'Ignazio erano per lui santi troppo severi: per Filippo seguire Gesù era affidarsi alla letizia della Resurrezione. Nella Compagnia della Trinità incontrò padre Persiano Rosa, cappellano della chiesa di San Girolamo della Carità che divenne il suo confessore, e a San Girolamo incominciò a ritrovarsi abbastanza regolarmente con quei compagni, giovani apprendisti e impiegati nei banchi, ma anche gente semplice, figli di artigiani e bottegai, che gli si erano stretti attorno, contagiati dalla sua allegria cristiana. Erano sempre più numerose le persone che si riunivano ogni giorno accanto a lui per la celebrazione dell'Eucarestia e per la spiegazione delle Sacre Scritture: nasce così, dalla pratica quotidiana, l'oratorio. Filippo divenne sacerdote il 23 maggio 1551. Gallonio racconta che da quel giorno iniziò a trovarsi «ad ogn’hora... al confessionario, scendendo ogni mattina all’alba nella chiesa, dove lungamente dimorando udiva con allegrezza quanti a lui venivano». A San Girolamo continuava con i suoi amici il dialogo semplicissimo, fatto, scrive Rita Delcroix (Filippo Neri, il santo dell’allegria, Roma 1989), di «domande e risposte sulla fede, sulla bellezza e la virtù e concluso con una spiegazione e un’esortazione, che Filippo compiva fraternamente, pianamente. Si usciva poi insieme per le strade di Roma...».
Negli anni del Concilio di Trento la sua vita ed il suo apostolato costituiscono un contributo concreto al rinnovamento della chiesa cattolica. Da sempre Filippo dimostra la sua particolare predilezione verso i fanciulli e i giovani, facendosi “fanciullo coi fanciulli, sapientemente”, divenendo loro amico e compagno di giochi. Non apre scuole e non traccia programmi teorici di insegnamento, ma organizza “liete brigate”. Al successo sempre maggiore delle riunioni dell'oratorio, delle passeggiate collettive quotidiane per le vie e le chiese di Roma, delle più solenni visite alle Sette Chiese (pellegrinaggi della durata di un giorno intero con messa, canti e anche colazione all'aperto), alle quali particolarmente nei giorni di Carnevale arrivavano a partecipare in alcuni anni più di un migliaio di persone, corrispose una notevole diffidenza, particolarmente acuta durante i pontificati di Paolo IV e Pio V; ci furono inchieste da parte del vicariato romano e dell'Inquisizione, essendo cosa «insolita» questo metodo di ragionamenti spirituali, con partecipazione dei laici, questa devozione che non negava la liturgia ufficiale né tantomeno i sacramenti, ma cercava nuovi spazi al di fuori delle consuete modalità. Resta il fatto che queste inchieste si conclusero sempre nel nulla e che l'influsso di Filippo e del suo gruppo divenne sempre più forte anche nell'ambiente curiale: alle riunioni e alle iniziative partecipavano i prelati e i cardinali più legati alla riforma religiosa, molti erano anche discepoli spirituali di Filippo. Poiché la malinconia è cattiva consigliera, mette la gioia al primo posto, accanto alla semplicità e alla dolcezza: per questo è anche chiamato “il santo della gioia”. Filippo trascorreva tempo con i suoi ragazzi: stava con loro. Quando qualcuno però si lamentava della “troppa allegrezza” dei suoi giovani, lui tranquillamente diceva: «Lasciateli, miei cari, brontolare quanto vogliono. Voi seguitate il fatto vostro. State allegramente: non voglio scrupoli, né malinconie; mi basta che non facciate peccati». E quando doveva calmarli un po’ diceva loro: «State buoni... se potete». Il 1564 fu l’anno in cui al riluttante “Pippo bbono” venne “imposta” dal suo amico cardinale Carlo Borromeo la rettoria di San Giovanni dei Fiorentini: là il santo destinò alcuni suoi seguaci diventati preti in quegli anni, lui però se ne restò a San Girolamo. Poi, il 15 luglio 1575, Gregorio XIII, concedeva al “diletto figlio Filippo Neri, prete fiorentino e preposito di alcuni preti e chierici”, la chiesetta parrocchiale di Santa Maria in Vallicella, dedicata alla Natività di Maria, ed erigeva canonicamente "una Congregazione di preti e chierici secolari da chiamarsi dell’Oratorio". In quello stesso 1575 si iniziò la ricostruzione della chiesa. Filippo, che non voleva assolutamente spostarsi, lasciò San Girolamo per questa nuova dimora solo nel 1583: ci volle l’intervento personale del Papa per spingerlo a lasciare il suo vecchio San Girolamo e a trasferirsi con la Congregazione che lo proclamava suo unico superiore. Se si riuscì a forzargli la mano, egli si rifece organizzando una splendida mascherata in cui i discepoli più fedeli dovettero attraversare la città sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando con gran cura un pezzo della miserabile mobilia di Filippo. Così era fatto “Pippo bbono”, l’Apostolo di Roma, che visse a Santa Maria in Vallicella fino alla morte, avvenuta il 26 maggio 1595. Il suo corpo riposa ancora qui.
la passeggiata
Ponte Sisto e via dei Pettinari
La passeggiata inizia da ponte Sisto: questo ponte prende il nome da Papa Sisto IV che fu l'artefice del restauro dell'antico ponte Aurelio, di età romana, crollato a causa della piena del 589. La ricostruzione avvenne sopratutto a seguito di un grave incidente verificatosi in occasione del giubileo del 1450, quando una enorme folla dei pellegrini diretti a San Pietro provocò il crollo di ponte Sant’Angelo, causando numerose vittime. Per favorire i flussi verso San Pietro specie nella prospettiva del successivo Giubileo, papa Sisto fece realizzare l'unico ponte costruito a Roma dal medioevo fino al XIX secolo. Ponte Sisto, la cui progettazione è attribuita a Baccio Pontelli, fu realizzato tra il 1473 ed il 1475, e collegò i rioni Regola e Parione all'altra riva del fiume, la zona di Trastevere. Ponte Sisto è caratterizzato dall’"occhialone" di deflusso in mezzo alle arcate, che verrà usato da sempre come strumento idrometrico per indicare il livello delle piene del Tevere. Quando pioveva a lungo, e il fiume s'ingrossava, i romani dicevano: "Guarda l'occhialone de ponte Sisto e datte 'na regolata a che punto sta er fiume: si l'acqua nun c'è arivata, vo' di' che nun straripa". Via dei Pettinari era la strada, che collegava Trastevere ai rioni Ponte, Parione e Regola, zone commerciali di notevole rilevanza: il toponimo di “Pettinari” andrebbe attribuito secondo alcuni, ai fabbricanti di pettini, secondo altri, ai pettinatori di lana per materassi. La strada conserva la sua struttura medievale in cui la chiesa di San Salvatore in Onda, rappresenta l’espressione più alta di una religiosità, evidenziata nella via, da ben cinque immagini della Madonna fra grandi e piccole che vanno dal 1705 al 1944.
Ss. Trinità dei Pellegrini
L'Arciconfraternita dei Pellegrini e Convalescenti della Ss.Trinità, fondata nel 1548 da San Filippo a favore dei poveri e dei malati, ebbe in dono da papa Paolo IV gli edifici dell'antica parrocchia di San Benedetto de Arenula. Quando la parrocchia fu soppressa, la chiesa stessa venne ridimensionata e si ottenne così un complesso dotato di dormitori e refettori di notevole capacità: in questa occasione la chiesa mutò nome e fu denominata Ss. Trinità dei Pellegrini. L'interno a croce latina, con colonne corinzie, si conclude in una volta a ferro di cavallo e ha un'abside dominata dalla pala d'altare di Guido Reni, la Santa Trinità. La chiesa ebbe un grande ospizio annesso, costruito nel 1625 per consentire l'assistenza ai pellegrini durante il Giubileo di quell'anno. Al centro della facciata, tra il primo e il secondo piano, presenta l'iscrizione “Ospizio dei Convalescenti e Pellegrini”, mentre un'altra iscrizione, posta alla sinistra del portale, ricorda che in questo ospizio, trasformato in ospedale militare nel periodo della Repubblica Romana, morì Goffredo Mameli a seguito delle ferite riportate nei combattimenti a difesa di Roma nel 1849.
S. Salvatore in Campo
Attraverso via di San Paolo alla Regola e vicolo dei Catinari si giunge a piazza San Salvatore in Campo. Qui si trova la chiesa di San Salvatore in Campo, che deriva il nome da una più antica che sorgeva su via dei Pettinari, demolita nel 1639 per consentire l'ampliamento del palazzo del Monte di Pietà e denominata San Salvatore de domno Campo. L'origine del termine Campo è incerta: c'è chi vuole derivi dal fatto che nel X secolo fu restaurata quando era sotto la giurisdizione di Campone, abate di Farfa, mentre altri ritengono che il termine derivi dalla piazza sterrata, chiamata allora Campo, che le era dinanzi. La chiesa odierna fu ricostruita da Urbano VIII nello stesso anno in cui fece demolire quella antica, attribuendole il titolo di San Salvatore in Campo, senza il de domno antico. L'edificio fu costruito dall'architetto Francesco Paparelli e presenta una facciata molto semplice e lineare. E’ in questa piccola chiesa che San Filippo fondò la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini.
via dei Giubbonari - Largo dei Librari
Via dei Giubbonari è una delle strade più caratteristiche di Roma, ma il nome prima dell'attuale era di via "Pelamantelli", perchè qui operavano i cardatori di lane e stoffe grezze; Il nome di Giubbonari fu assunto dalla via dopo il medioevo, quando nella strada si stabilirono i fabbricanti e venditori di "gipponi" o corpetti. Posizionata al limite del semicerchio che costituiva il teatro di Pompeo, la chiesa di Santa Barbara dei Librari fu voluta nel XI secolo, dal prefetto Giovanni Crescenzio e da sua moglie Rogata. Il tempio, a croce greca, si arricchì di affreschi, di un oratorio e delle reliquie di numerosi Santi, rinvenute successivamente all'interno di una cassetta di piombo sotto l'altare maggiore, che testimoniano l'importanza della chiesa durante il Medioevo. Nel 1680 fu ricostruita da Zanoni Masotti, uno stampatore, mentre la facciata è attribuita a Giuseppe Passeri. Il luogo di culto fu donato all'Università dei Librari, la corporazione a cui appartengono stampatori, legatori e Librari e che si assunse l'onere di ricostruirla nel 1680. Poi, però, dal 1878 i Librari abbandonarono la chiesetta e ciò significò la fine per Santa Barbara, che venne sconsacrata e adibita per molto tempo a semplice magazzino, mentre tutti i suoi ornamenti più importanti furono trasferiti nella vicina chiesa di San Carlo ai Catinari. L'ultimo restauro e la riapertura ai fedeli risale a pochi decenni fa. Nell'interno sono conservati un crocifisso ligneo del trecento, un trittico del 1453 che raffigura la "Madonna con Bambino ed i Santi Michele Arcangelo e Giovanni Battista".
Campo de' Fiori
Questa piazza deve il suo nome alle margherite, ai papaveri, ai fiori di prato che un tempo caratterizzavano la piazza, chiusa da un lato da una fila di palazzetti appartenenti alla famiglia Orsini e dall'altro digradante verso il fiume. Quando nel 1478 il mercato del Campidoglio venne spostato a piazza Navona, investendo, così, tutta la zona circostante, Campo de' Fiori compresa, questa divenne un importante centro di affari. Vi sorsero numerosi alberghi, osterie e locande rimasti famose nel tempo. Nel 1869 il mercato si spostò definitivamente da piazza Navona a Campo de' Fiori. Ma la piazza non fu soltanto luogo di affari o di piacere, ma anche luogo di esecuzioni capitali. Al centro della piazza si erge la statua del filosofo Giordano Bruno, messo al rogo per eresia nel 1600 proprio in questo punto: la statua, opera di Ettore Ferrari, venne inaugurata il 9 giugno 1889. Dove oggi si trova la statua di Giordano Bruno, vi era in passato una fontana, decorata da delfini bronzei, costituita da una tazza ovale di marmo bianco e chiusa da un coperchio ricurvo, con al centro una palla, somigliantissima ad una zuppiera, tanto che fu battezzata "la Terrina". Questa, nel 1924, venne spostata in piazza della Chiesa Nuova: quella odierna, situata all'estremità meridionale della piazza, ripete in parte la forma dell'antica ma senza il coperchio.
piazza Farnese
Collegata a Campo de' Fiori da vicolo de' Baullari, Piazza Farnese è una piazza austera, dominata da Palazzo Farnese, ed in netto contrasto con la vicina Campo de’ Fiori, piena di colori e di animazione. La piazza prende il nome proprio da palazzo Farnese, costruito per il cardinale Alessandro Farnese dai più grandi artisti dell'epoca, quali Antonio da Sangallo, Michelangelo Buonarroti, il Vignola e Giacomo Della Porta. Il palazzo fu iniziato a costruire nel 1514 su disegni di Antonio da Sangallo il Giovane, ma poi, sia per l'elezione del cardinale a pontefice (Paolo III) nel 1534 sia in seguito alla morte del Sangallo (1546), i lavori furono continuati da Michelangelo, che definì l'assetto dei primi due piani, eresse il terzo ed abbellì la facciata con il balcone centrale ed il cornicione. Nel 1635 i Farnese, concessero ai Francesi di ospitare nel palazzo la loro sede diplomatica; confiscato dal governo italiano dopo la caduta dello Stato della Chiesa, palazzo Farnese tornò ai Francesi quale sede dell'ambasciata di Francia sin dal 1874. Nella piazza, ai lati del palazzo, sono poste due fontane costituite da due vasche di granito egizio provenienti dalle Terme di Caracalla. La piazza fu a lungo usata quale spazio adibito all'organizzazione di tornei, corride e feste popolari: fu qui che, per la prima volta nella Roma moderna, si diede seguito al festoso e rinfrescante allagamento estivo, divenuto successivamente una peculiare attrattiva di piazza Navona. Sul lato destro della piazza, nel medesimo luogo dove S. Brigida aveva aperto un ospizio per i suoi connazionali e dove poi morì nel 1373, sorge la chiesa di S. Brigida, eretta nel 1391, allorché la santa svedese venne canonizzata. Di rilievo anche il palazzo Del Gallo di Roccagiovine, iniziato da Baldassarre Peruzzi nel 1520 per conto di Ugo da Spina e completato sette anni dopo.
via Monserrato - S. Girolamo della Carità
Via Monserrato conserva praticamente integro il caratteristico stile rinascimentale, dilungandosi con eleganza tra antichi palazzi, botteghe di artigiani e antiquari. La via fece parte, in passato, della via "recta papalis" percorsa dai cortei pontefici. Per breve tempo la via si chiamò anche "via Arenula" o "Regola" finché assunse il nome di "Corte Savella" perchè i Savelli, nominati Marescialli di Santa Romana Chiesa esercitarono qui la giurisdizione trasformando un palazzo di loro proprietà in tribunale e carcere. Poi la via prese il nome attuale dalla chiesa ivi costruita e dedicata alla Vergine del celebre santuario spagnolo di Monserrat. La via ospitò, a fianco di chiese e nobili palazzi, anche case di cortigiane che ben poco avevano da invidiare ai primi, come quella della celeberrima Imperia, situata all'angolo con via del Pellegrino, considerata una delle abitazioni più sontuose di Roma. All’angolo di via di Monserrato con piazza S. Caterina della Rota, si affaccia la chiesa di San Girolamo della Carità che, secondo la tradizione, fu edificata sulla casa di S. Paolo, ed aveva ospitato nel 382 S. Girolamo chiamato a Roma da papa Damaso. La chiesa originariamente a pianta basilicale a tre navate, fu sede a partire dal 1524 dell'Arciconfraternita della Carità, che la fece ricostruire tra il 1654 ed il 1660 ad opera di Domenico Castelli, mentre la facciata viene attribuita a Carlo Rainaldi. L'interno, a navata unica, ha un soffitto ligneo a cassettoni. La prima cappella a destra, della famiglia Spada, è opera di Francesco Borromini, che vi lavorò nei suoi ultimi anni: è rivestita di marmi policromi, caso unico tra le opere dell'artista. A sinistra dell'altare maggiore si trova la cappella Antamoro, dedicata a S. Filippo Neri e dalla sagrestia si può accedere alle stanze che S. Filippo abitò dal 1551 al 1583: sono distribuite su due piani e testimoniano con numerosi dipinti episodi e miracoli avvenuti durante la vita del santo.
strade d'altri tempi
Da via di Montoro ci si immette in via del Pellegrino, prima via Florea, poi via degli Orafi perché vi si istallarono orafi e incisori a seguito di un editto che obbligava questi artigiani ad avere casa e bottega nella via; infine prese l’attuale nome da una osteria chiamata "del Pellegrino", in quanto la via, essendo sulla direttrice per S. Pietro venendo da Campo de' Fiori, era percorsa continuamente da pellegrini. Si possono ancora notare, lungo questa via, antiche colonne inserite nei muri agli angoli delle vie: servivano a proteggere i muri degli edifici dai continui urti e sfregamenti provocati da carrozze, carri e carretti. Lungo la via si affaccia un arco: si tratta dell'Arco degli Acetari, che funge da cavalcavia tra due palazzi adiacenti e che prende il nome dal termine Acetosari, ossia dai rivenditori di Acqua Acetosa che qui dovevano avere i loro depositi, vista anche la vicinanza con il mercato di Campo de' Fiori. Passando tra botteghe di artigiani e di antiquari, si entra in una stradina stretta e buia, quasi un androne, che ci immette imprevedibilmente in uno scenario di altri tempi: casette con scale esterne tipiche dei borghi medievali, compongono una piazzetta “da presepio” situata allo sbocco dell’Arco degli Acetari. Proseguendo troviamo una stradina chiamata dell’Arco di S. Margherita, che costituisce anch’esso una curiosità per l’ambiente medievale, purtroppo in gran parte perduto. Qui si può ammirare un tabernacolo del settecento, considerato tra le edicole sacre più belle di Roma.
Il palazzo della Cancelleria
Questo palazzo ospita i tribunali della Santa Sede: la Rota Romana e la Segnatura Apostolica. Il palazzo, costruito tra il 1485 ed il 1513 è ancora adesso una delle proprietà della Santa Sede e gode delle immunità riconosciute alle Ambasciate estere in quanto zona extraterritoriale della Santa Sede. Fu il primo palazzo a Roma ad essere costruito ex-novo in stile rinascimentale. La lunga facciata, con il suo ritmo di lesene disposte ad interassi alternati, tra cui sono poste finestre sormontate da archi, è di concezione fiorentina, paragonabile a Palazzo Rucellai di Alberti. Il grande portone fu aggiunto nel XVI secolo da Domenico Fontana su ordine del cardinale Alessandro Farnese. Il travertino color rosso fu preso dalle vicine rovine del Teatro di Pompeo. La stessa provenienza hanno le grandi colonne porpora di origine egizia usate nel cortile interno di Donato Bramante per il porticato, che è considerato uno dei più eleganti mai costruiti. Nel centrale cortile rettangolare i due piani inferiori sono rappresentati da logge aperte. L'opinione sull'identità dell'architetto è divisa fra Bramante e Andrea Bregno, ma il cortile è attribuito generalmente a Bramante. La Cancelleria fu costruita per il Cardinale Riario, che era il Vice Cancelliere di suo zio Papa Sisto IV: per questo motivo questo palazzo è sempre stato sede della Cancelleria pontificia. La voce era che i fondi per la costruzione vennero dalle vincite di una singola notte di gioco. La lunga facciata del palazzo incorpora la piccola chiesa del San Lorenzo in Damaso: l'entrata alla chiesa è sulla destra della facciata. La chiesa del V secolo (l'interno è stato ricostruito) è costruita, come anche la chiesa di San Clemente, su un mitreo romano; scavi sotto il cortile nel 1988 – 1991 hanno rivelato fondamenta, IV e V secolo, della grande basilica del San Lorenzo in Damaso, fondato da Papa Damaso I, una delle più importanti chiese paleocristiane di Roma. Durante la Repubblica Romana del 1849, per un breve periodo fu sede del Parlamento romano.
Palazzo Massimo
Attraversato Corso Vittorio Emanuele II, si trova Palazzo Massimo alle Colonne, così denominato per lo stravagante marchio di fabbrica impressogli da Baldassarre Peruzzi, l'architetto che lo ideò, il quale impiegò quattro anni per costruirlo, dal 1532 al 1536, ponendovi, all'ingresso, sei grandi colonne di marmo. Il Peruzzi lo costruì sulle rovine di un palazzo, detto "del Portico" che andò distrutto durante il Sacco di Roma del 1527 e che apparteneva già alla famiglia Massimo. L'architetto mostrò una grande abilità nell'intervenire su un'area occupata da un palazzo già costruito, a sua volta, sulle rovine di un edificio risalente a Domiziano, un Odeon destinato agli spettacoli musicali e in stretta connessione con il vicino Stadio (oggi piazza Navona). La facciata di Palazzo Massimo è fondata, infatti, sulla cavea dell'Odeon e, nel suo andamento curvo, ripete perfettamente la curva dell'antico edificio colonna in piazza dei Massimi. Questa famiglia trae le sue origini, si dice, da Quinto Fabio Massimo che sconfisse Annibale nel III secolo a.C. Nei secoli successivi la famiglia si scinderà in due rami, i Massimo dell'Aracoeli, dal nome del palazzo ai piedi del Campidoglio, ora scomparso, e i Massimo delle Colonne, dal nome, appunto, del suddetto palazzo. Questo fu denominato, nel XVI secolo, anche "Palazzo del Miracolo". Il giovane Paolo Massimo, figlio del principe Fabrizio e di Lavinia de’ Rustici, dopo un inverno di malattia, il 16 marzo del 1583, morì. San Filippo, amico e frequentatore della casa, subito avvertito, giunse per benedire il ragazzo. Pregando accanto al corpo del giovane San Filippo lo chiamò e questi, risvegliandosi, dialogò con lui dicendo che era felice di morire e così raggiungere in Paradiso la madre e la sorella che lo avevano preceduto. Allora San Filippo Neri ponendo una mano sul capo del ragazzo lo accompagnò con la frase: ”Va’, e che sii benedetto et prega Dio per me”; detto questo, Paolo, come narrano le testimonianze dell’epoca, “subito tornò di novo a morire”. Tutto questo rimase segreto per più di un decennio fin quando, in occasione del processo di canonizzazione di San Filippo, nel settembre del 1595, il principe Fabrizio Massimo lo rivelò nella sua deposizione. La stanza di Paolo Massimo, dove era avvenuto il prodigio, era intanto stata trasformata dalla famiglia in cappella: i Massimo, ogni 16 di marzo, in ricordo dell'accaduto, aprono la Cappella ai fedeli e fanno celebrare una Messa.
piazza San Pantaleo e piazza Pasquino
In piazza San Pantaleo, sul lato rettilineo dello Stadio di Domiziano troviamo Palazzo Braschi, fatto costruire da Papa Pio VI, Giovan Angelo Braschi. Per la sua realizzazione vennero demolite una serie di costruzioni trecentesche verso via della Cuccagna, palazzo Caracciolo-Santobono e soprattutto il palazzo Orsini-del Monte. I lavori iniziarono nel 1791 ma a causa dell'occupazione francese del 1798 e agli eventi bellici seguenti, il palazzo, potè essere terminato solo nel 1811. A seguito delle vicissitudini economiche della famiglia, palazzo Braschi fu nel corso degli anni in parte occupato dai creditori, finché nel 1871 venne acquistato dal Governo Italiano che vi pose la sede del Ministero dell'Interno. Le sale del palazzo ospitarono per breve tempo la sede del Partito Nazionale Fascista, per poi diventare nel 1952, la sede del Museo di Roma. I lavori per l’edificazione del palazzo vennero affidati nel 1789 al Cosimo Morelli, che iniziò la costruzione due anni dopo, nel 1791. Per la particolare disposizione planimetrica del lotto, confinante con piazza Navona e la via Papalis, il Morelli optò per una insolita pianta pentagonale, che permetteva di avere una facciata su piazza Navona e una su piazza di S. Pantaleo. L'esterno, completato nel 1794, presenta delle facciate austere: un enorme basamento a bugne circonda il piano terra dell'edificio, includendo anche il piano ammezzato sormontato da un leone con la pigna tra le branche emblema degli Onesti; sopra si compone il piano nobile che verso la facciata principale presenta una balconata con balaustrini per tutta la larghezza ripiegando sui fianchi. Nel fregio dell'ultima cornice si aprono delle finestre circolari alternate ai simboli dei Braschi, le stelle a sei punte e i gigli. Verso piazza Pasquino, il Morelli per non creare un angolo vivo, decise di smussare l'incontro delle due facciate, creando un suggestivo e severo costone, con balcone al primo piano. Lo scalone principale, ideato dal Morelli ma portato a termine dal Valadier, venne compiuto nel 1804, venne decorato dallo stesso Valadier e da Luigi Acquisti e a ragione viene definito tra i più solenni di Roma. Le sale del piano nobile, vennero decorate in stile neoclassico, tra cui spiccano alcune volte d’ispirazione egizia.
Sotto il costone di palazzo Braschi su piazza Pasquino, fa bella mostra di se il gruppo di Enea che sorregge Patroclo, rinvenuto nel 1498 dal cardinale Oliviero Carafa sotto le sue proprietà, e da questi posto all'angolo del distrutto palazzo Orsini- Del monte. Pasquino è la più celebre statua parlante di Roma, divenuta figura caratteristica della città fra il XVI ed il XIX secolo. Ai piedi della statua, ma più spesso al collo, si appendevano nella notte fogli contenenti satire in versi, dirette a pungere anonimamente i personaggi pubblici più importanti. Erano le cosiddette "pasquinate", dalle quali emergeva, non senza un certo spirito di sfida, il malumore popolare nei confronti del potere e l'avversione alla corruzione ed all'arroganza dei suoi rappresentanti. Quando si costruì palazzo Braschi, il Papa, per non provocare tumulti popolari, fu costretto a lasciare la scultura al suo posto.
i nomi di certe strade
Passando per via del Governo Vecchio (prese questo nome quando il Governatorato di Roma fu trasferito a Palazzo Madama nel 1741) si giunge in via di Parione dove si trova la chiesa di S. Tommaso in Parione che, benché di aspetto e dimensioni modeste, è in realtà ricca di storia ma la si ricorda soprattutto perché è qui San Filippo Neri venne ordinato sacerdote il 23 maggio 1551. Intorno al 1582, la chiesa fu ricostruita ad opera di Francesco da Volterra; l’interno, a tre navate, ha perso quasi tutte le opere d’arte che ancora possedeva nell’Ottocento. È chiesa nazionale d'Etiopia ed è officiata in rito etiope.
Piazza e vicolo del Fico prendono il nome da un albero di fico che si trovava in questa contrada: stessa cosa avvenne anche per una popolare osteria che qui si trovava. Sia la piazza che il vicolo ebbero anche altri nomi, tra cui quello del termine romanesco che indica il sesso femminile: la cosa è spiegata dal fatto che nel vicolo abitavano numerose cortigiane. Con lo stesso motivo si spiegano i toponimi di via delle Vacche e di via della Vetrina che si trovano nelle vicinanze.
Piazza e vicolo del Fico prendono il nome da un albero di fico che si trovava in questa contrada: stessa cosa avvenne anche per una popolare osteria che qui si trovava. Sia la piazza che il vicolo ebbero anche altri nomi, tra cui quello del termine romanesco che indica il sesso femminile: la cosa è spiegata dal fatto che nel vicolo abitavano numerose cortigiane. Con lo stesso motivo si spiegano i toponimi di via delle Vacche e di via della Vetrina che si trovano nelle vicinanze.
nella roccaforte degli Orsini
Passando da vicolo Orsini si incrocia via di Montegiordano dove il livello stradale si solleva piuttosto bruscamente a formare un piccolo colle. Qui sorge un edificio del XV secolo, Palazzo Taverna, costruito sulle rovine di una fortezza medievale appartenuta a Giordano Orsini, esponente di una delle più potenti famiglie romane. Quando la fortezza, ricordata anche da Dante nella Divina Commedia, fu completamente distrutta, il cumulo di rovine, che formò un vero e proprio monte, venne chiamato Monte Giordano. Palazzo Orsini Taverna costituisce l'antico complesso edilizio degli Orsini sin dal 1286, una vera roccaforte irta di torri ed edifici suddivisi fra i vari rami della famiglia: i duchi di Bracciano, i conti di Pitigliano, i signori di Marino e di Monterotondo. Nel 1549 il palazzo fu abitato dal cardinale Ippolito d'Este che lo utilizzò come luogo di incontri mondani e culturali, ospitando un letterato come Torquato Tasso.
Nel 1688 Flavio Orsini, ultimo duca di Bracciano, fu costretto a vendere il complesso ai fratelli Gabrielli, di antica nobiltà romana, marchesi: questi vi apportarono importanti modifiche dandogli l'aspetto attuale e lo tennero fino al 1888. L'ultimo cambiamento di proprietà avvenne a favore dei Taverna, che ne sono ancora proprietari. Dal grande ingresso a volta si può intravedere la fontana costruita da Antonio Casoni nel 1618 e situata all'imbocco della cordonata che porta ai cortili del palazzo. Questa fontana, costituita da quattro vasche successive e concentriche e contornata da una fitta esedra di alloro, fu modificata nel Settecento dai Gabrielli, perchè in precedenza due orsi, simboli araldici degli Orsini, erano posti in cima a due muri un tempo posti ai lati della fontana e dalla bocca dei quali partiva uno zampillo che faceva giungere l'acqua all'interno della seconda vasca.
piazza dell'Orologio
Il nome della piazza deriva dall'orologio posto sulla torre del convento dei Filippini che qui si affaccia. La torre, costruita dal Borromini nel 1648, è sormontata da un castello che sostiene le campane ed è fiancheggiata da due cippi con stelle araldiche. Sotto il quadrante dell'orologio, è inserito un mosaico su disegno di Pietro da Cortona rappresentante la Madonna della Vallicella. Sulla piazza, in passato chiamata anche piazza dei Rigattieri per la presenza di un vivace commercio di oggetti usati, si affaccia il palazzo del Banco di S. Spirito, costruito per volere di monsignor Virginio Spada, per destinarlo a sede del banco, nonostante il parere contrario dei ministri dell'istituto bancario, che ritenevano la zona troppo lontana dal centro degli affari. I lavori iniziarono nel 1660 ma, alla morte di Virginio Spada, i ministri del banco decisero che la nuova sede sarebbe stato l'edificio che ancora oggi viene denominato come palazzo del Banco di S. Spirito: fu così che il marchese Orazio Spada fu costretto ad acquistare l'edificio, oltretutto incompiuto, per una ingente somma e a far ultimare i lavori, sempre a sue spese, dal Borromini. Il palazzo odierno è il risultato dei lavori di ristrutturazione di fine Ottocento ad opera dell'architetto Gaetano Koch, il quale trasformò completamente l'opera seicentesca per volontà dei nuovi proprietari, i conti Bennicelli. In questa casa nacque e visse per un certo periodo il più famoso dei Bennicelli, Adriano, più noto come Conte Tacchia, celebre per il suo modo di vivere, per il comportamento scanzonato, abbinato ad un modo di vestire sempre eccentrico.
Santa Maria in Vallicella
Conosciuta anche la Chiesa Nuova, è sicuramente uno dei più importanti centri religiosi della città, La chiesa è storicamente legata alla figura di San Filippo Neri (1515-1595) "Apostolo di Roma", canonizzato nel 1622. Era chiamato dal popolo "Pippo bbono" e aveva fondato la Confraternita dei Pellegrini e dei Convalescenti allo scopo di assistere i pellegrini bisognosi che si recavano a Roma, ma si prodigò in modo particolare per l'educazione cristiana ed il miglioramento della condizione dei fanciulli poveri e abbandonati della città, oltre ad un’infinità di altre opere di apostolato e di carità, che posero la sua figura al centro delle vicende religiose e sociali della Roma del tempo. In segno di riconoscimento per l’opera svolta, Gregorio XIII gli fece dono della chiesa di Santa Maria in Vallicella, la cui esistenza era già documentata dal XII secolo. La chiesa fu consacrata nel 1599 mentre la facciata fu completata ai primi del ‘600. L'interno è progettato dall'architetto Martino Longhi, con la collaborazione di Giacomo della Porta. La piazza prende il nome dall'omonima chiesa, che, pur avendo ormai quasi quattro secoli di vita, rimane tuttavia la "Chiesa Nuova". Questo appellativo le deriva dal fatto che la chiesa venne eretta al posto di una vecchia chiesa medioevale, Santa Maria in Vallicella, incorporandone, in verità, anche altre due, Santa Elisabetta a Pozzo Bianco e Santa Cecilia a Monte Giordano. La chiesa medioevale, ricordata fin dal XII secolo, era detta "in Vallicella" perché il terreno circostante formava un piccolo avvallamento. Iniziata nel 1575 da Pietro Bartolini di Città di Castello, che utilizzò il modello della navata unica con quattro cappelle per lato. Dal 1586 al 1590 subentrò nella direzione dei lavori Martino Longhi il Vecchio, che aggiunse una quinta cappella destra e sinistra, ed eresse l'abside, il transetto e la cupola. La facciata in travertino, inquadrata da lesene, fu eretta tra il 1594 e il 1606 su disegno di Fausto Rughesi; il portale maggiore spicca su quelli laterali, oltre che per le dimensioni anche per la presenza delle colonne binate che sostengono l’architrave e la lunetta dove è collocata la Madonna Vallicelliana, opera scolpita da Giovanni Antonio Paracca, autore anche delle statue nelle nicchie dell’ordine superiore (San Gregorio Magno a sinistra e San Girolamo a destra). La cupola, che Martino Longhi aveva realizzato priva di tamburo nel 1590, fu modificata da Pietro da Cortona nel 1650 con l’aggiunta di una lanterna e cupolino per una migliore illuminazione interna. L'interno è distribuito su croce latina. La chiesa conserva molte e preziose opere d’arte, soprattutto dipinti, ma anche affreschi, stucchi, sculture in marmo ed in bronzo. Fra i numerosi artisti che qui hanno lasciato loro opere, basterà ricordare Pietro da Cortona, Cavalier d’Arpino, Pietro Paolo Rubens, Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio, Carlo Rainaldi, Carlo Maratta.
Oratorio dei Filippini - Piazza della Chiesa Nuova
A fianco della chiesa vi è l'Oratorio dei Filippini, i membri dell'Ordine di San Filippo Neri, costruito nel 1575. La facciata, realizzata da Borromini tra il 1637 ed il 1643, è leggermente concava e riccamente ornata, la volta piana ed i giochi prospettici all'interno. Il termine "oratorio" si riferisce alla funzione svolta dal luogo, dove San Filippo faceva eseguire composizioni musicali. Dopo il 1870 parte del convento e l'oratorio furono espropriati dallo Stato italiano e destinati a sede della Corte d'Assise: l'aula borrominiana divenne così un'aula di tribunale, mentre i piani superiori divennero la sede degli uffici giudiziari. Tutto ciò provocò lo sdegno di quanti ricordavano il rispetto in cui era tenuto il luogo sacro, denso di memorie di San Filippo: difatti, per quanto si cercasse di tramutare il sacro in profano, non fu possibile rimuovere il pulpito di legno destinato "per li sermoni" e neppure la statua di San Filippo, che rimase al suo posto. Nel 1911 il convento fu restituito ai Filippini, mentre l'oratorio rimase allo Stato: in particolare qui, al secondo piano dello stabile, risiede la Biblioteca Vallicelliana, appartenente al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dove sono conservate, tra le altre cose, raccolte riguardanti la storia della Chiesa, in particolare Riforma e Controriforma, e testi inerenti la cultura e la storia di Roma e del Lazio, presenti soprattutto nei fondi della Società Romana di Storia Patria, consultabili presso la Biblioteca. La consapevolezza di dover affrontare il problema della formazione cristiana degli uomini del suo tempo aveva portato San Filippo a dar vita agli incontri che chiamerà “l'oratorio”, incentrati su di una educazione alla fede cristiana, attraverso la conoscenza e la meditazione delle vite dei santi alternata ad orazioni e canti, dando a tutti i partecipanti la possibilità di intervenire e di dibattere su questioni di varia natura. L'Oratorio divenne sede della riforma musicale, avvenuta proprio in questo luogo. Lentamente, infatti, le laudi monodiche si trasformarono in composizioni a più voci ad “Oratorio”; il più noto compositore, amico di Filippo Neri, è Giovanni Animuccia. L'interno è concepito in funzione della grande sala dell'Oratorio, dove, nelle pareti ad intonaco, vengono ripetute le tipologie esterne e con l'utilizzazione della pianta ellittica si viene a creare una nuova concezione di sala dove tutti potessero vedersi mentre pregano, cantano o parlano. A decorare la piazza fu sistemata, nei primi anni del '900, la statua in marmo di Pietro Trapassi, meglio conosciuto con il nome grecizzato di Metastasio (1698-1782. La statua, firmata dal fiorentino Emilio Gallori, proveniva dalla piazza di S. Silvestro, dove fu inaugurata nel 1886 e da dove traslocò, probabilmente per motivi di intralcio al traffico. Nel 1924 la piazza della Chiesa Nuova venne ornata da una fontana che, in passato, era situata a Campo de' Fiori. Sulla fontana, eseguita su disegno di Giacomo Della Porta nel 1581, nel 1622 papa Gregorio XV fece apporre sopra la fontana un coperchio di travertino, con al centro una palla, molto probabilmente per evitare che la fontana continuasse ad essere un ricettacolo di immondizia. Il risultato fu che la fontana risultò talmente somigliante ad una zuppiera che i romani la battezzarono "la Terrina".
Molte strade e vicoli che abbiamo attraversato in questa passeggiata hanno ancora viva, dopo tanti secoli, la memoria di "Pippo Bbono"; la sua lezione ha lasciato un segno indelebile nella Chiesa nata dalla Riforma. "Apostolo di Roma" lo definirono immediatamente i Pontefici ed il popolo Romano, attribuendogli il titolo riservato a Pietro e Paolo, titolo che Roma non diede a nessun altro dei pur grandissimi santi che, contemporaneamente a Filippo, aveva vissuto ed operato tra le mura della Città Eterna. E' stato un santo che andava incontro ai più deboli e più fragili: non amava le ingiustizie, l'inquisizione, i complotti del potere, la fede imposta con la paura. San Filippo Neri è stato il Santo del buon umore, della gratuità e della semplicità.
Ma tutta Roma, oggi, ha ancora bisogno di questa memoria viva: che essa dai vecchi vicoli che hanno ormai perso la vivacità della vita popolare, prenda la strada delle grandi periferie dove tanti ragazzi di Lui avrebbero tanto bisogno.
Ma tutta Roma, oggi, ha ancora bisogno di questa memoria viva: che essa dai vecchi vicoli che hanno ormai perso la vivacità della vita popolare, prenda la strada delle grandi periferie dove tanti ragazzi di Lui avrebbero tanto bisogno.
ricordo della passeggiata
foto di gruppo di Bruno Brunelli
“Bisogna desiderare di fare cose grandi per servizio di Dio e non contentarsi di una bontà mediocre” (S. Filippo Neri)
© Sergio Natalizia - 2011