opere di redenzione
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opere di redenzione nella Roma papalina
Tra il XVI e il XVII secolo Roma appariva piena di donne dedite alla prostituzione: sulla base dei dati del censimento del 1526, si può in linea di massima stimare che nei secoli in esame le prostitute arrivarono a costituire circa il 10% della popolazione romana. La Chiesa condannava la presenza di meretrici: la loro immoralità, oltre a mettere in pericolo la salvezza dell’anima dei fedeli, violava la sacralità della città centro della cristianità. Allo stesso tempo però le casse dello Stato della Chiesa si alimentavano anche con i proventi della tassazione sulle attività delle cortigiane; basti pensare che le meretrici erano tenute a pagare un tributo fisso e a contribuire con specifiche tassazioni al bene della città, come quella che papa Leone X impose loro per finanziare i lavori di sistemazione di via di Ripetta.
Già in età rinascimentale, e in maniera più sistematica nel successivo periodo, a Roma non mancarono iniziative tese a limitare la prostituzione e a salvaguardare la coesione morale della città. Per le residenti furono previste pene corporali come la pubblica fustigazione e la corda, mentre le non romane furono obbligate all’esilio e al ritorno nella propria terra di origine. A metà del Cinquecento, Paolo IV stabilì che tutti coloro che avviavano una fanciulla alla prostituzione potevano addirittura essere condannati a morte. Nel 1566 Pio V arrivò ad ordinare l’espulsione di massa di una parte delle prostitute dalla città e tre anni dopo stabilì la ghettizzazione temporanea delle restanti in un quartiere ad esse specificamente destinato, denominato l’Ortaccio; la segregazione ebbe comunque breve durata perché non diede i risultati sperati. La Chiesa però si mosse anche in altri modi, cercando di recuperare le anime delle donne di malavita creando delle istituzioni finalizzate ad accoglierle e redimerle. Di conseguenza, prese corpo a Roma una vasta opera di recupero sociale: tale azione si rivolse in particolare verso le meretrici ma senza trascurare le fanciulle che correvano il rischio di cadere nella morsa della prostituzione in quanto povere o perché vivevano in condizioni di particolare vulnerabilità.
La prima istituzione destinata al riscatto delle prostitute risale agli anni Venti del XVI secolo e fu dovuta all’iniziativa di un esponente della famiglia fiorentina dei Medici, il cardinale Giulio, che aveva contribuito a fondare a Firenze la Compagnia del Divino Amore con lo scopo di assistere i malati incurabili, gli affetti da sifilide e le prostitute, che prese a Roma il nome di S. Maria Maddalena delle Convertite. Il termine convertita stava appunto a identificare le meretrici che avevano deciso di “convertirsi” ossia di cambiare vita e abbandonare il lavoro e l’esistenza peccaminosa fino allora condotti, per darsi a un’esistenza ritirata dal mondo, da trascorrere in penitenza in un monastero.
Il convento di S. Maddalena delle Convertite si trovava proprio nei pressi dell’area dell’Ortaccio. Le convertite dovevano seguire la regola di s. Agostino e professare i voti solenni di “Religione, Povertà et Obedienza”, ai quali era aggiunto però il vincolo di rispettare la perpetua “et strictissima clausura”. Le ex prostitute indossavano una tonaca nera per ostentare la loro vita precedente, e al di sopra portavano un mantello bianco ad indicare la mutazione di costumi e il candore della nuova esistenza intrapresa. La testa era coperta da un velo nero, ma durante le processioni e i sermoni oppure quando uomini entravano in monastero, esse dovevano coprire anche il volto, con un telo scuro.
Con l’epoca del Concilio di Trento, prese corpo a Roma una vasta opera di protezione e recupero di alcuni strati svantaggiati della popolazione. Tale azione coinvolse non solo le prostitute ma anche le fanciulle povere o particolarmente vulnerabili e quindi a rischio di prostituzione, per le quali vennero creati specifici istituti i conservatori destinati a proteggerne l’onore e l’onestà, e non di rado diretti da religiose o afferenti a monasteri veri e propri. Si trattava di una politica importante per una città che tentava di ricostruire il proprio prestigio e aspirava a proporsi come modello di virtù in quanto capitale del mondo cattolico e sede del papato. In questo contesto si inserirono le iniziative di Ignazio di Loyola, realizzate in collaborazione con Filippo Neri e con il cardinale Giampietro Carafa, più tardi eletto papa con il nome di Paolo IV, di un insieme di interventi sociali rivolti soprattutto alle categorie più marginali, della popolazione romana. Ignazio cominciò a raccogliere presso di sé alcune giovani che la povertà rendeva particolarmente vulnerabili al rischio di prostituirsi o che erano figlie o parenti di meretrici; quindi chiamò un gruppo di oblate agostiniane a prendersi cura di loro: fu così che sorse il conservatorio per zitelle “pericolanti” di S. Caterina della Rosa in via dei Funari. La fondazione fu promossa anche dalla Compagnia delle Vergini Miserabili, una confraternita di laici ed ecclesiastici costituitasi per soccorrere le figlie delle cortigiane. Ad alcune delle ragazze salvate era concessa la possibilità prendere l’abito monastico secondo la regola di s. Agostino; le altre invece rimanevano nella comunità almeno per sette anni, e poi, fornite di dote, potevano maritarsi o farsi monache in un altro dei conventi cittadini. Fu istituita anche una “Casa” che accoglieva donne maritate che “fossero mal trattate dalli mariti in modo che non potessero stare con loro senza scandalo, overo restassero Vedove, né trovassero luogo honesto dove poter stare”, almeno finché si fossero riappacificate con il proprio coniuge o sposate di nuovo.
Destinata, invece, esplicitamente a donne non più incorrotte fu un’altra comunità sorta su impulso di Sant’Ignazio: il “rifugio” di S. Marta nel rione Pigna. Questo sito venne istituito per recuperare ex peccatrici e donne traviate sia nubili che “malmaritate”, che erano decise a lasciare “la mala vita, e non erano però chiamate alla perfetione religiosa” e dunque non desideravano proferire voti solenni né entrare in clausura.
Occorre quindi fare distinzione fra convertite e malmaritate: mentre le prime erano donne che di propria volontà avevano esercitato il meretricio, e si erano poi pentite, le seconde erano prostitute indotte a tale professione o perché andate in sposa a mariti che, improvvisatisi lenoni, le costringevano a vendersi, o perché, abbandonate dai mariti, non avevano di che vivere.
Alle ricoverate nubili era dunque lasciata la libera scelta tra matrimonio e monachesimo, ma quando nel 1563 il rifugio di S. Marta divenne un vero e proprio monastero di clausura, le donne da recuperare furono trasferite da papa Pio IV in un fabbricato poco distante, nel rione S. Eustachio. La Casa Pia, come venne chiamato il nuovo sito in onore del pontefice, si trovava adiacente al monastero di S. Chiara all’Arco della Ciambella e già ospitava una comunità di monache clarisse. Proprio queste ultime vennero incaricate del controllo delle peccatrici e delle donne che non vivevano più con i propri mariti, se malmaritate. Penitenti e malmaritate rimasero nella Casa Pia di S. Chiara fino al 1656, quando il cardinale Francesco Barberini le trasferì a via della Lungara a Trastevere, nella Casa per penitenti di S. Croce alle Scalette, divenuto poi nei secoli successivi il complesso del “Buon Pastore”.
Queste istituzioni rimasero in essere, magari cambiando nome e genere di ragazze assistite fino a tutto l’ottocento quando arrivarono a contarsene ben 18; oggi si ricorda in modo particolare quello delle “Zoccolette”, nell’omonima via del rione Regola.
Già in età rinascimentale, e in maniera più sistematica nel successivo periodo, a Roma non mancarono iniziative tese a limitare la prostituzione e a salvaguardare la coesione morale della città. Per le residenti furono previste pene corporali come la pubblica fustigazione e la corda, mentre le non romane furono obbligate all’esilio e al ritorno nella propria terra di origine. A metà del Cinquecento, Paolo IV stabilì che tutti coloro che avviavano una fanciulla alla prostituzione potevano addirittura essere condannati a morte. Nel 1566 Pio V arrivò ad ordinare l’espulsione di massa di una parte delle prostitute dalla città e tre anni dopo stabilì la ghettizzazione temporanea delle restanti in un quartiere ad esse specificamente destinato, denominato l’Ortaccio; la segregazione ebbe comunque breve durata perché non diede i risultati sperati. La Chiesa però si mosse anche in altri modi, cercando di recuperare le anime delle donne di malavita creando delle istituzioni finalizzate ad accoglierle e redimerle. Di conseguenza, prese corpo a Roma una vasta opera di recupero sociale: tale azione si rivolse in particolare verso le meretrici ma senza trascurare le fanciulle che correvano il rischio di cadere nella morsa della prostituzione in quanto povere o perché vivevano in condizioni di particolare vulnerabilità.
La prima istituzione destinata al riscatto delle prostitute risale agli anni Venti del XVI secolo e fu dovuta all’iniziativa di un esponente della famiglia fiorentina dei Medici, il cardinale Giulio, che aveva contribuito a fondare a Firenze la Compagnia del Divino Amore con lo scopo di assistere i malati incurabili, gli affetti da sifilide e le prostitute, che prese a Roma il nome di S. Maria Maddalena delle Convertite. Il termine convertita stava appunto a identificare le meretrici che avevano deciso di “convertirsi” ossia di cambiare vita e abbandonare il lavoro e l’esistenza peccaminosa fino allora condotti, per darsi a un’esistenza ritirata dal mondo, da trascorrere in penitenza in un monastero.
Il convento di S. Maddalena delle Convertite si trovava proprio nei pressi dell’area dell’Ortaccio. Le convertite dovevano seguire la regola di s. Agostino e professare i voti solenni di “Religione, Povertà et Obedienza”, ai quali era aggiunto però il vincolo di rispettare la perpetua “et strictissima clausura”. Le ex prostitute indossavano una tonaca nera per ostentare la loro vita precedente, e al di sopra portavano un mantello bianco ad indicare la mutazione di costumi e il candore della nuova esistenza intrapresa. La testa era coperta da un velo nero, ma durante le processioni e i sermoni oppure quando uomini entravano in monastero, esse dovevano coprire anche il volto, con un telo scuro.
Con l’epoca del Concilio di Trento, prese corpo a Roma una vasta opera di protezione e recupero di alcuni strati svantaggiati della popolazione. Tale azione coinvolse non solo le prostitute ma anche le fanciulle povere o particolarmente vulnerabili e quindi a rischio di prostituzione, per le quali vennero creati specifici istituti i conservatori destinati a proteggerne l’onore e l’onestà, e non di rado diretti da religiose o afferenti a monasteri veri e propri. Si trattava di una politica importante per una città che tentava di ricostruire il proprio prestigio e aspirava a proporsi come modello di virtù in quanto capitale del mondo cattolico e sede del papato. In questo contesto si inserirono le iniziative di Ignazio di Loyola, realizzate in collaborazione con Filippo Neri e con il cardinale Giampietro Carafa, più tardi eletto papa con il nome di Paolo IV, di un insieme di interventi sociali rivolti soprattutto alle categorie più marginali, della popolazione romana. Ignazio cominciò a raccogliere presso di sé alcune giovani che la povertà rendeva particolarmente vulnerabili al rischio di prostituirsi o che erano figlie o parenti di meretrici; quindi chiamò un gruppo di oblate agostiniane a prendersi cura di loro: fu così che sorse il conservatorio per zitelle “pericolanti” di S. Caterina della Rosa in via dei Funari. La fondazione fu promossa anche dalla Compagnia delle Vergini Miserabili, una confraternita di laici ed ecclesiastici costituitasi per soccorrere le figlie delle cortigiane. Ad alcune delle ragazze salvate era concessa la possibilità prendere l’abito monastico secondo la regola di s. Agostino; le altre invece rimanevano nella comunità almeno per sette anni, e poi, fornite di dote, potevano maritarsi o farsi monache in un altro dei conventi cittadini. Fu istituita anche una “Casa” che accoglieva donne maritate che “fossero mal trattate dalli mariti in modo che non potessero stare con loro senza scandalo, overo restassero Vedove, né trovassero luogo honesto dove poter stare”, almeno finché si fossero riappacificate con il proprio coniuge o sposate di nuovo.
Destinata, invece, esplicitamente a donne non più incorrotte fu un’altra comunità sorta su impulso di Sant’Ignazio: il “rifugio” di S. Marta nel rione Pigna. Questo sito venne istituito per recuperare ex peccatrici e donne traviate sia nubili che “malmaritate”, che erano decise a lasciare “la mala vita, e non erano però chiamate alla perfetione religiosa” e dunque non desideravano proferire voti solenni né entrare in clausura.
Occorre quindi fare distinzione fra convertite e malmaritate: mentre le prime erano donne che di propria volontà avevano esercitato il meretricio, e si erano poi pentite, le seconde erano prostitute indotte a tale professione o perché andate in sposa a mariti che, improvvisatisi lenoni, le costringevano a vendersi, o perché, abbandonate dai mariti, non avevano di che vivere.
Alle ricoverate nubili era dunque lasciata la libera scelta tra matrimonio e monachesimo, ma quando nel 1563 il rifugio di S. Marta divenne un vero e proprio monastero di clausura, le donne da recuperare furono trasferite da papa Pio IV in un fabbricato poco distante, nel rione S. Eustachio. La Casa Pia, come venne chiamato il nuovo sito in onore del pontefice, si trovava adiacente al monastero di S. Chiara all’Arco della Ciambella e già ospitava una comunità di monache clarisse. Proprio queste ultime vennero incaricate del controllo delle peccatrici e delle donne che non vivevano più con i propri mariti, se malmaritate. Penitenti e malmaritate rimasero nella Casa Pia di S. Chiara fino al 1656, quando il cardinale Francesco Barberini le trasferì a via della Lungara a Trastevere, nella Casa per penitenti di S. Croce alle Scalette, divenuto poi nei secoli successivi il complesso del “Buon Pastore”.
Queste istituzioni rimasero in essere, magari cambiando nome e genere di ragazze assistite fino a tutto l’ottocento quando arrivarono a contarsene ben 18; oggi si ricorda in modo particolare quello delle “Zoccolette”, nell’omonima via del rione Regola.
© Sergio Natalizia - 2016